Noi di Dulcis In Fiore

Dalla storia nascono in nostri prodotti

Per gli antichi latini

quando sedevano a tavola, il “Flos Cenae” era considerato il piatto forte, la degna conclusione di un banchetto.
Letteralmente il significato è “il fiore della cena” e per loro rappresentava la portata con cui si onoravano i commensali della loro presenza e li si deliziava a fine pasto.

Dulcis in Fiore nasce dalla forte passione per prodotti, storia, cultura e tradizione della nostra terra, prodotti che a noi piace considerare il flos cenae.

Il nostro brand nasce dall’attento studio fatto su diversi concetti, perciò è un concentrato di significato: innanzitutto il concetto di “Dulcis in fundo” (antico e famoso proverbio latino), poi quello di “Flos Cenae” ed infine un richiamo alle origini tramite la parola FIORE che, da sempre, denota l’identità della nostra San Giovanni in Fiore.

Dulcis in Fiore è il nostro sogno che diventa realtà e che prende forma e sapore nei nostri prodotti.

Gastronomia popolare​

Cenni storici sulla pitta 'mpigliata​

La storia e la cultura di un popolo passano anche attraverso l’arte culinaria:
le abitudini alimentari dei sangiovannesi rispecchiavano le condizioni economiche e la posizione geografica del paese.
L’agricoltura di tipo intensivo dava prodotti quali patate, cavoli, fagioli e ortaggi vari.
Questi prodotti rappresentavano gli alimenti della dieta quotidiana

La minestra primeggiava sulle tavole di ogni casa, servita in un grande piatto fatto di legno, in cui spesso tutti i membri della famiglia mangiavano contemporaneamente.

La carne era quasi assente, tranne nei giorni di festa, durante i quali venivano fatte le polpette con il sugo, che serviva per condire le tagliatelle fatte in casa.

In questi giorni compariva sulle tavole sangiovannesi anche il baccalà, che veniva preparato nella farina e fritto, oppure a “tiella” con le patate.

Oltre al baccalà, l’altro pesce consumato erano le sarde, conservate nel mese di ottobre, che raramente venivano consumate fresche, poiché ne arrivavano in piccole quantità dai paesi di mare.

La pitta ‘mpigliata era il dolce per eccellenza di questa “dieta dei poveri”.

La sua preparazione, infatti, richiedeva pochi elementi facilmente accessibili a tutti, perché disponibili in natura.

Pensiamo alla farina, sempre presente nelle case per la preparazione del pane fatto a mano e cotto a legna; pensiamo alle noci, che i contadini reperivano nei loro campi o da piante selvatiche; pensiamo ai fichi secchi, che nei decenni sono stati poi rimpiazzati dall’uva passa.

Bastava avere questi semplici ingredienti, insieme a zucchero e qualche altra spezia, per preparare l’impasto e riempirlo poi col ripieno, ben amalgamato alcune ore prima.

Leggenda sulla pitta ‘mpigliata

Si narra che un contadino, in una notte di tempesta, si era smarrito in un bosco della Sila. Dopo tanto errare, ad un tratto gli apparve una splendida fata che gli offrì il suo aiuto, riconducendolo verso casa.
Il contadino, per dimostrarle la sua riconoscenza, preparò alla fata un dolce con tutti gli ingredienti che aveva in casa..
Così fece una sfoglia con farina, olio e vino, la farcì di noci e uva passa, il tutto addolcito con miele e zucchero; l’arrotolò e, per impedire che si aprisse, fermò i bordi del dolce con degli steli di origano: da qui il nome di pitta ‘mpigliata.

Stralci di libri sulla pitta

Nel periodo che precedeva il Natale non c’era tempo per annoiarsi nel nostro paese.

Si cominciava già molto tempo prima con l’uccisione del maiale, ma poi agli inizi di dicembre ci si organizzava per fare le pitte ‘mpigliate, i turdilli e i fritti. E così s’incominciavano ad ammaccare le noci, a pulire e lavare le “pàssule” (uva passa), a mettere da parte lievito, noce moscata e cannella, in modo che al momento giusto, quando si riunivano le “comari”, tutto era pronto per mettersi a lavoro.

Quello delle pitte ‘mpigliate era un rito che prendeva molto tempo, perché a turno le donne si aiutavano tra loro. Sicché si cominciava da una casa e si finiva all’altra e poi i soliti commenti: “Cummari mia ‘e tue su bbenute troppu cotte” (“Commare mia, le tua sono venute troppo cotte”), e l’altra replicava: “‘E tue ‘mbece se senta nnu pocu l’uogliu” (“Delle tue, invece, si sente troppo l’olio”).

Così queste pitte erano sempre diverse le une dalle altre, anche se la manodopera era quasi sempre la stessa e gli ingredienti non differivano di molto da una famiglia all’altra. Ma alla fine, ognuno apprezzava sempre di più le proprie e i commenti passavano nel dimenticatoio.

Dulcis in Fiore

Dove siamo arrivati

Non tutto è perduto fino a quando ci saranno giovani che osano. Tanto e senza paura.

L'impegno ripagato

I nostri premi

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